Project Description

SFERE

DI ANTONIO TERUZZI

Capita di incrociare un vecchio compagno di scuola che non vediamo da un’intera vita: il volto familiare è svanito ma, improvvisamente brilla un riflesso nell’occhio, una scintilla di empatia sfugge alla censura dell’autocontrollo, e, grazie a una forza involontaria, finiamo per riconoscerlo. Abbiamo di fronte una fisionomia del tutto trasformata, ma sappiamo riconoscere il disegno della metamorfosi oltre l’inerzia dell’identità. Non confrontiamo due statiche immagini lontane nel tempo solo sovrapponendole, ma percepiamo in modo naturale e quasi misterioso il movimento di metamorfosi. L’azione del riconoscere il volto non si fonda sull’astrazione, ma si modella dinamicamente lungo le traiettorie della trasformazione rispecchiando empaticamente l’Altro nell’Io, e l’Io nell’Altro. Anche questa è magia dell’arte: oltrepassare le apparenze, spalancare porte altrimenti sbarrate, avventurarsi oltre il nero del’oblio, riconoscere una presenza, un’origine, una persistenza della memoria oltre la nostra stessa volontà o abilità di ricordare.

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Se nello spettro dei colori codificati troviamo il Blu oltremare, per Antonio Teruzzi deve esistere anche il Nero oltrenero: non è un punto zero cromatico, è piuttosto un punto di ascolto oltre l’apparente reticenza del soprannaturale. È una paziente vedetta sul confine tra due mondi, capace di attendere, senza pretendere. Il nero oltre nero è il punto di confine tra vibrazione del colore ed immobilità del concetto; è omertà complice di una trascendenza silente, che chiede di specchiarsi nel buio. Siamo all’inverso dello scetticismo della prova di Tommaso: “non si tocca per credere”, ma piuttosto “si crede per impossibilità di toccare”. E’una prova per assurdo: credere a ciò che si sottrae alla visione a ciò che non è percepibile. Fenomenologia noetica del negativo, etica dell’ineffabile, cromatismo in perenne via di fuga. Teologia negativa vicina ai confini di un severo penitenziale protestantesimo del colore: asciuttezza e rigore come gli interni spogli di una chiesa luterana. Antonio Teruzzi con la sua lunga vita nell’arte ha compreso che nulla è più prezioso del sostare sulla soglia di un ascolto abissale. Un tessitura di evocazioni, di ectoplasmi multiformi, di suggestioni, di fantasmi che non muovono tavolini, ma smuovono l’occhio interiore, e mobilitano l’Anima. L’arte del predisporre attenzione è il dono degli ultimi approdi del lavoro di Antonio Teruzzi, non l’illusionismo del prestigiatore che fa apparire ciò che non è veramente accaduto, ma l’incanto di indicare nel buio la presenza di ciò che è nel mistero. Non il miraggio del falso nel sole che acceca, ma l’essenza del vero nel fondo profondo del nero. Una traversata notturna nel deserto, guidati solo dalla conoscenza antica degli astri e dalla fiducia nel proprio intuito, questa è la dimensione sapienziale di opere che non hanno reciso del tutto il legame con la figurazione, ma preferiscono dedicarsi a raffigurare la rarefazione. C’è una nostalgia per la perduta densità dell’umano nella relazione con la vastità ineffabile dello spirituale. Se Wittgenstein concludeva il suo Tractatus con la celebre proposizione: “Su ciò, su cui non possiamo parlare, dobbiamo tacere”, all’opposto, il fare dell’arte chiede di tentare il rappresentare proprio l’invisibile. L’etica della pittura coincide dunque con il coraggio di sottoporsi al rischio dello scacco, di scontrarsi proprio con il limite dell’indicibile. Ciò richiede la profonda saggezza di vivere l’umile discrezione dell’allusione, nel procedere pericolosamente, ma inesorabilmente, nell’ignoto.
Nell’arte contemporanea, si spesso fa largo una certa indulgenza nell’inconsistenza, siamo ormai troppo di frequente involontari testimoni di un banalizzato tempo di coazione alla chiacchiera, tanto assordante come gli effimeri fuochi artificiali che svuotano la solitudine del buio, oppure destinati a proteggerci dal terrore delle tenebre con il minimalismo di un neon che immiserisce la notte. Ma questo non è un mondo innocente: nel pieno della vita siamo già insieme alla morte. C’è bisogno di tempo autentico. Occorre notte vera non addomesticata. Fondi persi nell’infinito, tutt’altro che perduti.

Un tuono silenzioso, un lampo nero, un vento fermo. Questo non è il nero di una indistinta notte hegeliana della pittura in cui “tutte le vacche sono nere”, semmai è un nero, “più nero del nero”, allo stesso modo dei “più uguali degli uguali” nella fattoria degli animali di Orwell: è un nero insieme paradossale e parossistico. Ma non occulta, disvela l’essenza della trascendenza del colore. Un cigno nero su un mare di pece: ma il cigno rimane pur sempre un cigno.
Queste terre desolate dipinte sono sempre fertili, come in una primavera crudele alla T.S. Eliot, che si apre a seminare pensiero, a fecondare occasioni di rinascita nel grembo della vita. Si avverte una vitalità, una presenza mobile tra voci in sottofondo che fuoriescono dall’impasto materico della pittura. Vita allo stato nascente, crepitio vegetale, rottura di uova, rumori di nascita. Sistole e diastole nel primo battito di vita. Suoni ancora aritmici, ma già destinati a sopravvivere in perfetta armonia. Colore fin dentro il calore nel cuore. Corde spezzate di strumenti musicali come premonizioni di un silenzio definitivo, che lascerà spazio solo alla musica siderale dell’armonia di sfere, di musica astrale che abbraccia l’esosfera sconfinando nell’universo e nello spazio.
Ma poi Antonio Teruzzi fa ritorno a Terra, al globo terrestre, con le sue Sfere evocative, uniche e differenti, monadi geologiche come il mondo su cui si appoggia la nostra esistenza, il contenitore biologico su cui si fonda il nostro essere nel Mondo e su cui si regge la nostra forma di conoscenza. La costruzione dell’ordine e del senso sin dall’origine predilige la perfezione della forma sferica. Le dottrine filosofiche antiche hanno sempre prediletto le figure sferiche per rappresentare la totalità. La sfera è l’archetipo che avvolge e protegge, che ingloba e custodisce la vita, che la salvaguarda dal rischio del disordine e dell’oltremisura. Una totalità curva che rassicura l’uomo comodamente collocato al centro del mondo. La dottrina dell’Essere, l’ontologia antica trova nella sfera la forma ideale per rappresentare perfezione e protezione della misura, ma anche mistero iniziatico ed ermetico. Una tramatura di evocazioni alchemiche aprono le Sfere alla verità annidata nel profondo: Sfere esoteriche.
Nelle Sfere di Antonio Teruzzi è spesso rappresentata una dolente moltitudine umana che affiora sulla crosta terrestre e si raggruma in una densità indistinta anteriore alla deriva dei continenti. Destini umani incagliati sulla crosta terreste o angeli precipitati sul pianeta. Storie di guerre e di simboli arcani, non raccontate, ma condensate in un sincretico disegno umano che mostra la Storia come infinita rotazione del mondo su se stesso in un circolo autoreferenziale come moto perpetuo di Sfere solitarie. Palle da cannone di una antica cruenta battaglia, scagliate nella Storia lungo ellittiche traiettorie balistiche nell’ignoto.
Volti emersi dal bronzo dei volumi sfuggenti della sfere, calotte isolate dei poli e meridiani di graffi significanti in linguaggi immersi nell’inconscio e nella notte dei tempi. Ritmi alternati di opacità corrugata e terrosa e dorature lucenti nelle superfici, restituiscono superfici altamente evocative, geologiche e insieme magiche, mai definitive, sempre allusive, inviluppate in una ambigua inarrestabile rotazione del significante e irraggiungibile comprensione del significato. Geomanzia di sfere magiche per prevedere il futuro, per ingraziarsi il destino.
Le Sfere di Antonio Teruzzi sono perfette allegorie plastiche, sono metafisiche palle da biliardo che rimbalzano tra le sponde del cosmo e si scontrano in una meccanica celeste impazzita, seguendo la mira di un giocatore invisibile che è forse un Dio del caso, od un Dio che decide la sorte di un gioco di cui già conosce l’esito.
Sfere che sono mappamondi circumnavigati da segni e alfabeti atavici, libri sferici che raccontano storie circolari, mappe nautiche antidiluviane, inattuali, ma necessarie per navigare nell’esistenza, amuleti preziosi che proteggono e ricordano l’appartenenza al dominio del sacro.
L’uomo vitruviano di Leonardo è inscritto nel cerchio, le sfere di Antonio Teruzzi sono solcate da immagini umane: è il lato inquieto, asintotico, oscuro del Rinascimento per nulla risolto e conchiuso nella formula esatta della bellezza. Leonardo per raggiungere la verità anatomica deve sezionare cadaveri, mentre Antonio Teruzzi deve scorticare le superfici, deve intagliare le Sfere di profonde venature, canyon, trincee di un mondo in guerra col destino. Si deve squartare l’epidermide delle Sfere per raggiungere il nucleo infuocato e sanguinante della verità.
Le sfere rimandano alla simbologia delle arti del quadrivio medievale: aritmetica, geometria, astronomia, e musica: sembrano prelevate da un dipinto del tardo quattrocento o cinquecento, potrebbero arredare gli interni della cabina di un navigatore o della torre di un astronomo dell’evo-moderno accompagnate da una meridiana portatile, un telescopio, un quadrante da tavolo per misurare l’altezza degli astri e mappe cartografiche. Non mancherebbero pure, disposti su qualche antico leggio, rari volumi annunciati da preziose rilegature. Tanto la cornice rende possibile il movimento centripeto del quadro, quanto la legatura cuce l’abito del libro e ne preannuncia la bellezza dei pensieri sommersi al suo interno. La legatura è la pelle che trasuda emozioni del libro, la copertina il sorriso che annuncia lo spirito e il tono del testo, il suo carattere unico e differente. Le legature di Antonio Teruzzi sono una profezia di salvezza per la forma culturale del volume. Epifania bibliofila, annuncio del libro come forma sacrale di verità: non di una verità unica, ma come verità del libro come monade del pensiero. Libro rimedio all’ oblio.
Le legature sono in rilievo come scritture braille leggibili con le mani, non c’è più nemmeno bisogno di aprire e di fogliare, basta sfiorare le copertine e assaporarne i profili con delicati movimenti delle palme, con la sensibilità dei polpastrelli, per presagire il contenuto: libri tattili di cui fidarsi ciecamente, anche al buio. Del resto Borges è il bibliotecario più importante del novecento.
Tradurre in immagine di copertina le parole del libro, renderne il tono, l’atmosfera, la musicalità nella sintesi di una icona che condensa lo tutto lo spirito che anima il testo: questa è arte inattuale, sacrificio sublime degno di un amanuense medievale. Con la sua straordinaria bibliofilia Antonio Teruzzi diviene restauratore della forma di pensiero condensato nella cultura del volume. Pagine aperte di pensieri che resistono al vento senza disperdersi, grazie a legature esperte che sanno avvolgere il Libro con massima cura scolpendone la forma e preservandone la personalità. Fili saldi di legature che tessono le trame e le fibre del corpo del libro rivelano le sottili corrispondenze tra Libro-icona e Foglio-mondo. Il lavoro di legatura è infatti il restauro non solo del corpo ma dell’identità stessa del libro, del suo volto unico, nell’offrirsi come una monade autoreferenziale che contiene dentro di se tutta l’intensità di un intero universo di conoscenza. Il Libro-mondo è perfetto e conchiuso in sé stesso e perfetto come la Sfera-mondo. Una bolla che non ammette nulla fuori di sé. Allora, forse, la vita non è sogno, ma è piuttosto un libro sognato.
Antonio Teruzzi potrebbe essere il protagonista del film di François Truffaut tratto dal romanzo Fahrenheit 451, dove, per fuggire alla persecuzione contro i libri destinati al rogo, un gruppo di resistenti ribelli si assume la missione di preservare il contenuto dei libri imparandone ciascuno un testo a memoria per salvarlo: il libro viene incorporato dalla memoria della persona e salvato dall’oblio. Con il suo paziente lavoro di legature Antonio Teruzzi ha mostrato come, in un momento in cui il libro non è minacciato da una dittatura politica, ma dalla dittatura informatica che vorrebbe smaterializzarlo rendendolo un flusso elettronico binario di dati, sia assolutamente decisivo valorizzarne l’integrità a partire dalla veste editoriale e dall’aspetto formale. L’identità del Libro non può essere smontata e decostruita impunemente dal libro elettronico, che opera una mutazione genetica sulla sua identità ontologica trasformando il testo in ipertesto. Ciò nega la irriducibile unicità individuale della forma libro per arrivare a sezionarlo, frammentarlo, indicizzarlo in un gioco di collegamenti evaporati in un nuvola di byte in cui non c’è più nemmeno la certezza dell’autenticità contro possibili falsificazioni e appropriazioni ermeneutiche. Quello di Antonio Teruzzi è un gesto di somma dedizione al culto del libro. Bisogna fare scudo con la sensibilità artistica e la cura bibliofila per tutelare i volumi di carta dal rischio di un libricidio tecnologico perpetrato non con il fuoco, ma con l’informatica. I libri non possono essere smaterializzati senza venire snaturati, perché la materialità del libro incarna la forma spirituale della cultura. Con le legature, non si conserva solo l’integrità e l’autenticità del testo, ma si supporta la bellezza e la sacralità dell’atto della lettura. Il libro è paziente e silente, e ricomincia ad animarsi non solo quando viene letto, ma anche tutte le volte in cui viene desiderato, prefigurato e immaginato e nella mente del futuro lettore.
Antonio Teruzzi è come un imbalsamatore egiziano che avvolge i fogli dei libri nelle bende dalle strette legature per superare i millenni senza sbriciolarsi in polvere e dimenticanza. L’artista, come uno scriba egiziano, comprende il valore sacerdotale della Scrittura e conosce i segreti conservati nei papiri della memoria. Apprezza il legame inscindibile ed insostituibile tra scrittura e memoria, tra supporto e scrittura, e comprende in tutta la sua simbolicità l’essenza geroglifica della relazione originaria tra pittura e scrittura, tra parola e immagine. Avverte da sempre che il culto dei libri è anche un culto dei morti. Esiste forse una “Stele di Rosetta” in grado di tradurre i remoti geroglifici dei quadri di Antonio Teruzzi in alfabeti che parlano al nostro tempo? La risposta è affermativa perché la pittura di Antonio Teruzzi esprime una vocazione a un Sacro remoto trascritta nel linguaggio espressionista della contemporaneità artistica: si traduce in una sensibilità intinta della storia dell’arte dell’avanguardia e perciò sintonizzata su un linguaggio adatto ad essere compreso.
C’è una forte inclinazione spirituale nella pittura materica di Antonio Teruzzi, nel suo itinerario tra grovigli di foreste rampicanti dell’anima. Nei suoi quadri si offre una bellezza intransigente esposta alla potenza del nulla disposto tra distese di segni sospesi. Legni feriti di un mondo carbonizzato tra pirografia dell’anima e combustione della speranza. Segni disidratati, straziati: supplizi di segni supplicanti piogge purificanti. Tracciati gestuali che si sporgono su una solo apparente monocromia, che in realtà rivela giochi di rifrazioni sottili e mobili. Pareti nude tradiscono crepe ed erosioni di affreschi trafugati: agonia della figurazione nel digiuno delle immagini. Bassorilievi erosi e quasi cancellati raccontano storie ormai incomprensibili su un portale di una cattedrale in esilio. Radiografie di sogni, sottotesti inconsci della figurazione si rivelano nella stesura di filamenti di forme di ghiaccio come angeli disseminati in un passaggio alieno.
Spettri di luce congelata si addentrano tra distese di lava solidificata: terre fertili tra resurrezione della immaginazione e costellazioni di enigmi di segni di vetro. Erratici eretici campi di forze attratti da una simpatia per l’abisso. Sempre segni, ombre cuneiformi, grovigli, rilievi, faglie, depositi di tempo e tumuli di verità segreta. Fondi persi tra verità segrete da cogliere nel doppio fondo di un sogno. Il colore essiccato tra oceani di sale taglia il tessuto della tela e toglie il respiro della speranza. Lacrime rosse su pagine nere si incaricano di scrivere parole cieche.
Nella pittura di Antonio Teruzzi, il nero si intreccia con l’oro, la sostanza aurea diventa agente di trasformazione alchemica che oltrepassa il mistero del nero. Non è più l’oro della Pietra filosofale, l’oro mefistofelico e della dannazione, ma è la magia della trasfigurazione dell’ombra nella luce, dell’impurità della materia nella sacra teofania del divino: una transustanziazione nella qualità dello splendore del simbolo regale e divino.
Durante il Siglo de oro spagnolo Calderon de la Barca scrive “La vita è sogno” ed il sogno è d’oro. Al crepuscolo dell’Età dei lumi, il sonno della ragione di Goya comincia a partorire incubi e pitture nere. Luce e tenebra non si contraddicono in una dialettica opposizione, ma si tengono tra loro in un groviglio di implicazioni reciproche. Il grande mistico Juan de la Cruz irradia di nuovo senso il nulla della luce oscura: nella notte oscura dell’anima salvezza e perdizione arrivano a toccarsi in un rispecchiamento estatico, mezzogiorno e mezzanotte coincidono in un’eclissi del senso che apre al volo mistico.
Durante una Ronda di notte come quella dipinta da Rembrandt, in una città barocca di vicoli stretti, potremmo imbatterci in un vecchio amico travestito da nemico: il volto trasfigurato dalle ombre e dalla paura sarebbe irriconoscibile, senza luce si rischierebbe la morte. Ma la salvezza non dipende dall’illuminazione ma da una miracolosa intuizione.[/su_spoiler]