Project Description

DUNE

DI GIUSEPPE AMADIO

Dal 28 novembre al 24 dicembre gli spazi dell’Art Factory di Maurizio Fabrizio ospiteranno una selezione di opere del grande artista Giuseppe Amadio, la cui mostra completa sarà inaugurata sabato 28 novembre alle ore 18.00 presso la Galleria Marco Monti (via A. Volta 17, Monza).

La mostra rappresenta un’importante occasione per ammirare e apprezzare più di cento opere fra tele estroflesse, ceramiche, resine e smoke, ed avere l’opportunità durante l’inaugurazione, di conoscere personalmente il Maestro.

La sua pittura, la sua ricerca del punto di rottura della tela che non avviene mai e la sua ricerca trasversale sono elementi di innovazione; innovazione tecnica ma anche di linguaggio. Amadio usa la sua cifra pittorica per evocare, attraverso il pigmento, i piani e le luci di una nuova pittura scultorea.

SPIRITO NOVECENTESCO
di Vittorio Sgarbi

C’è un passato forte alle spalle del presente artistico di Giuseppe Amadio, eccellente creatore di estroflessioni che ribadiscono un’attualità ormai fuori dal tempo, non solo perfettamente adattabile alla sensibilità estetica dell’odierno, ma proiettabile anche nel futuro più immediato.

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E’ un passato, recentemente consacrato dal mercato internazionale, che rimanda a una Milano rimpianta, quella dinamica e vitale, nel pieno del boom economico, in grado di ritagliarsi un ruolo di tutto rilievo non solo nella nuova produzione industriale, ma anche nell’arte più innovativa del momento, con Lucio Fontana a fare da grande padre spirituale di un manipolo di giovani profeti, raccolti attorno al progetto della rivista “Azimuth”, con la presunzione di voler ricominciare daccapo. Fra questi, anche i primi, Enrico Castellani e Agostino Bonalumi, a proporre delle estroflessioni – tele monocrome “gonfiate” posteriormente da orditi simmetrici di chiodi per il primo, da sagome regolari, prevalentemente curvilinee, per l’altro – nei termini grammaticali che Amadio adotterà e farà propri, convertendoli a nuovi sviluppi espressivi, seppure del tutto coerenti con quei precedenti.

Quale la differenza fondamentale di Castellani e Bonalumi, ereditata di converso anche da Amadio, rispetto alla strada indicata dallo Spazialismo di Fontana? La necessità di mettere l’oggetto – nella sua rinnovata materialità, consapevole delle evoluzioni determinate dall’industria moderna (il design progettuale, la scoperta delle plastiche sintetiche, la serialità), ma anche in un’autonomia di fini, strettamente formali, rispetto a quelli del prodotto commerciale – al centro della ricerca artistica, senza ritenerlo, quindi, la semplice esemplificazione di un impianto teorico, un manifesto che pretenderebbe ancora di affermare, secondo il metro della prima Avanguardia, il primato del genio creativo su qualsiasi estrinsecazione materiale. Così, anche nelle estroflessioni di Amadio, ogni oggetto è una storia diversa, un’avventura della forma che si giustifica per proprio conto, frutto di un’idea primaria, certo, ma anche di una messa in pratica che diventa basilare nell’elaborazione del fatto artistico e si rifiuta di essere un semplice pretesto del dettato iniziale, un modo come un altro per affermare la bontà del suo credo, riproponendo, semmai, i diritti di una precisa capacità configurativa, perfino artigianale, volta a escogitare, plasmando nella dimensione mediana e sfuggente, ancora in attesa di definizione, del “poco più che piatto”, o “poco meno del tutto tondo”, se si preferisce, quella che in passato era riconosciuta al bassorilievo, ovvero alla scultura che più di ogni altra, esprimendo la sua massima disponibilità a illustrare il tema nobile per eccellenza, l’historia, ambiva alla sovrapposizione con la pittura, infinite variazioni al teorema che si palesano come effetti differenziati di carattere puramente formale, distillati di intuizione che ora materializzano la fascinosa, sensuale dialettica fra superfici contigue, ma di spessore e inclinazioni differenti, che elementi ricurvi, memori dei tagli fontaniani, stabiliscono nel disporsi verticalmente o orizzontalmente interessando quanto più spazio possibile, ora le regolarissime combinazioni di crateri castellaniani, a trovare il senso della propria entità, sublimata in organizzazione di cadenze armoniche, di intento implicitamente lirico, quasi musicale, nell’inserirsi entro la contrapposizione fra vuoto e pieno, ombra e luce, in entrambe le situazioni non rinunciando mai al monocromo, che tutto emancipa dall’esperienza contingente per assolutizzarlo, e implicando il ricorso, nei supporti di partenza, a forme archetipiche, dal rettilineo al circolare o, financo, alla bizantina mandorla, che arricchiscono ulteriormente la posta in gioco, aggiungendo discorso a discorso, dialogo a dialogo, forse anche simbolo a simbolo. Potrebbe sembrare qualcosa di particolarmente astratto, nella riflessione come nell’espressione, se non avessimo a che fare con opere che sprizzano concretezza sensoriale da tutti i pori, presupponendo, come parellelo uguale e contrario della visualità, una tattilità che viene istigata da Amadio come un testo in alfabeto Braille, precursore di Castellani, farebbe con un cieco.

Ed è proprio la tentazione tommasiana a toccare per capire, irresistibile, in antitesi a un costume perbenista dell’arte che ci vorrebbe di nuovo passivi spettatori di un’apparizione, come vittime del gioco di un prestigiatore, l’ultima, estrema provocazione a cui Amadio ci sottopone, nel recupero di uno spirito novecentesco, il più coraggioso e pedagogico, per quanto venato talvolta da qualche eccesso d’ingenuità, che non ha affatto esaurito la sua capacità di fare presa sui nostri bisogni contemporanei, non solo estetici.

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