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IMPRONTE DEL SACRO

DI ANTONIO TERRUZZI

Impronte del sacro, Opere di Antonio Terruzzi
A cura di Felice Terrabuio
Testo critico di Vittorio Raschetti

Impronte del sacro

Espatriando dal pudore dell’Io per ritornare nel mondo che accoglie con diffidenza, mentre la vulnerabilità, l’assenza di peso e l’inconsistenza si trasforma in fede nell’incertezza. Tutta la forza composta nella fragilità: labile, inattaccabile aspirazione interiore, intensità oltre l’evasione sottile dalle cose. Sostando alla ricerca del senso, disposti a vivere l’attesa, lasciandosi abitare da improvvisa pazienza. Occorre unire epoche, aprendo la memoria vivente all’invasione del possibile annunciato, aggirando l’abisso dell’oblio. Oltre la friabilità del corpo, nel trascorrere delle ore, nel migrare dell’amore.

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Semplici terre cotte, precari rifugi di argilla adatti ad una fugace apparizione terrena, impasti di fango e vita che rivelano la provenienza dal suolo, mostrando l’essenza frugale e fuggente del fondamento. Vibrazioni telluriche imprimono fratture, linee spezzate, come disegni di sismografi che registrano l’instabilità nell’apparente affidabilità della terra. L’impronta sul suolo, la traccia di passaggio, si congiunge col paesaggio mobile nei riverberi infiniti dove tutto sembra solo capace di confondersi.

Tutto si riduce alla bellezza aggredita dal dubbio, alla forma assediata dall’inconsistenza, tutto riconduce al mistero custodito nel profondo oscuro inaccessibile. Una voce dispersa di profezia, il disfarsi di un abbozzo di poesia, avvolto nelle spirali infinite di un viaggio personale, sommerso dalle imprevedibili connessioni da cui nasce l’opera d’arte. Ancora attenzione, appartati in apparenza, apparentati da una sensazione di comune appartenenza. Solitari, ma non soli. Sospesi nelle ore inaccessibili.

Siamo il corpo spogliato di una visione morale nel confronto inumano con l’oltreumano. Non abbiamo dolore, ma siamo il nostro dolore, vivendo la prossimità con la lacerazione sigillata su se stessa. Oltre la reticenza del volto, le rughe sono solchi geologici che tradiscono pensieri rappresi sotto l’espressione, onde anomale congelate sul mare dell’intenzione. Incorporato in un campo di tensioni, perdendo peso e guadagnando intensità, attraversato da forze estranee e innominabili, l’artista gode solo il privilegio dell’  ascolto delle vibrazioni più impercettibili, tra meditazioni e transizioni.

Il mistero disciolto come calcare distilla una filigrana di linee  intersecate tra loro in un gioco di sovrapposizioni, di incroci di umanità, in un destino collettivo di condivisioni. Odore di umanità, odore di terra bagnata nella comunione del respiro. Il senso è nella connessione, nel chiamarsi e nel corrispondersi, nella fusione di orizzonti, nello smarrirsi del destino privato nell’umano.

Il mondo ha confinato l’arte nello spazio del superfluo, della citazione, ma la creatività rimane un progetto sul mondo, l’opera serve a sviluppare una tensione a interrogare l’umano. Tracciare è un atto di esistenza che affida al segno la verifica della propria precaria esistenza.

Un arsenale ancestrale di forme estetiche, di detriti ancora pronti a rianimarsi. Cortecce dischiuse liberano anime erranti. Arabeschi spirituali che alludono all’umano. Lamelle incastonate in un disegno più ampio, elementi di una struttura più vasta, altorilievi di codici astratti ma evocativi di segni che rimandano ad un vago destino, indecifrabili sistemi di alternanze ritmiche filiformi di un messaggio criptato intinto in simulacri di forme antiche ed eclettiche.

Scongelare possibilità iscritte nel tempo dormiente del sacro, turbati ed attratti, ancora ispirati dalle sottili differenze ai confini delle cose, dai contorni vibranti delle forme, dai silenzi sibilanti all’ombra di presagi su polveri d’oro.

Vittorio Raschetti

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